Diocesi di Como

Solidarietà è anche preghiera.

Traccia per un discernimento in tempo di epidemia

Mariano Crociata, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno

il Regno, Attualità, 8/2020, 15/04/2020

Uno dei semi più fecondi del concilio Vaticano II è la riscoperta del sensus fidei di tutto il popolo cristiano, come si esprime la Lumen gentium. Il popolo di Dio, nel suo insieme, possiede l’ufficio profetico (cf. n. 12), che manifesta nelle varie espressioni della sua vita in famiglia, sul lavoro, in società, nella comunità ecclesiale. L’interpretazione delle dinamiche di fondo del suo agire si offre come un adeguato criterio di discernimento dei segni dei tempi. Questo appare singolarmente riscontrabile al momento presente. 

Se guardiamo al modo come le comunità ecclesiali e la gran parte dei credenti hanno reagito all’esplosione dell’epidemia da coronavirus, troviamo in buona sostanza prese di posizione, gesti e iniziative riconducibili a due forme fondamentali: la solidarietà e la preghiera. Pur essendo forme tipiche dell’esistenza cristiana ed ecclesiale ordinaria, esse assumono un significato peculiare nel contesto attuale. Indicano infatti una origine e un orientamento che vanno oltre la loro osservabile esecuzione, interpellando l’intera comunità dei credenti e sporgendosi oltre i suoi confini. 

Solidarietà e preghiera per i cristiani hanno senso perché ciascuna di esse non nasce né si esaurisce in se stessa e perché stanno insieme strutturalmente. La solidarietà cristiana non è solo manifestazione – già di per sé nobilissima – di un sentimento di benevolenza e di compassione, ma ha la sua sorgente nella carità, virtù donata con la grazia dello Spirito Santo.

La preghiera, poi, non è solo invocazione d’aiuto che nasce dall’esperienza d’indigenza o, come oggi, di calamità; è bisogno che scaturisce dalla fede e dall’incontro con il Dio che salva in Gesù, a cui il credente si apre in un ascolto che sfocia in dialogo filiale.

Solidarietà e preghiera, poi, si presuppongono a vicenda, non essendoci fraternità reale e durevole che non nasca dalla coscienza del comune padre celeste e non c’è dialogo con Dio che si chiuda a chi Dio stesso ha a cuore non meno di quanto abbia a cuore chi lo sta pregando. Solidarietà e preghiera, nell’atto stesso della loro inesauribile circolarità, muovono verso una pienezza di fraternità e di comunione che sono possedute nella forma della speranza e vivono di una tensione verso quella pienezza animata da una corrispondente profonda certezza. 

Gli stessi cristiani devono ammettere di non essere stati e di non essere sempre all’altezza di ciò che essi sperimentano, e – in aggiunta – riconoscono attorno a sé segni di una solidarietà e di un bene misteriosamente seminati nei cuori da una grazia sovrabbondante che nessuno può pretendere di trattenere in esclusiva.

È l’esperienza pure di questa stagione, che affida alla comunità dei credenti un triplice compito. Il primo dei quali vede i credenti mescolati a quelli che tali non si considerano ma con i quali condividono pregi e limiti, valori e cultura. Per questo motivo essi hanno sempre bisogno di richiamare se stessi all’autenticità di una fede e alla coerenza di una vita che troppo spesso vengono smentite da una mondanizzazione che vede dissolversi la loro originale peculiarità. È singolarmente puntuale il monito dell’apostolo: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). 

Un istinto fragile

La transizione verso una società non più cristiana rende quanto mai confuse le differenze e indistinti i confini. Probabilmente in questo punto riscontriamo una delle sfide che come credenti siamo chiamati ad affrontare. Nel passaggio, che sembra interminabile, da una società integrata a maggioranza culturale cattolica a una caratterizzata da pluralità consolidata di presenze anche religiose, ci troviamo, per così dire, in mezzo al guado. Un guado tanto più paralizzante se teniamo presente che il superamento del paradigma secolaristico vede da tempo l’esplosione di una religiosità caratterizzata dai fenomeni della soggettivizzazione e della de-istituzionalizzazione.

In qualche modo tutti si è dentro tali processi, che chiedono l’esercizio di una fede e di una intelligenza credente che non si smarriscano tra gli estremi dell’assimilazione e dell’isolamento settario, ma salvaguardino la costitutiva destinazione «popolare» (cioè, offerto a tutti) dell’annuncio cristiano.

Si tratta per noi credenti di stare dentro una convivenza sociale in cui si è allo stesso tempo parte integrante e differenza irriducibile, secondo l’inconfondibile modello fissato nello scritto A Diogneto: «Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera» (V,5).

Il punto è che i cristiani devono, nella linea dell’incarnazione, possedere un nucleo irriducibilmente altro nella perfetta aderenza, esteriormente perfino indistinguibile, alle condizioni di vita e di cultura che sono di tutti. L’arduo problema che si pone oggi riguarda proprio la capacità di custodire e tenere vivo quel nucleo d’identità che non separa ma distingue e qualifica.

L’esplodere dell’epidemia, se per un verso ha visto scattare l’istinto spirituale tipico del credente che si pone a servizio e prega, ne mostra anche tutta la fragilità rispetto a un contesto sociale e culturale nel quale tutti sembravamo correre, prima di questo brusco arresto, inarrestabili e senza meta.

Di qui il secondo compito, che non si può appagare dell’auspicio condiviso che la scienza trovi modo, quanto prima, di sconfiggere il virus. La domanda che si pone a noi credenti, e che abbiamo la responsabilità di sollevare oltre la nostra cerchia, riguarda il senso di una corsa che il mondo globalizzato sembra avere intrapreso non si sa verso dove.

Ci sono due istanze di fondo che non possiamo fare a meno di testimoniare, senza la pretesa di essere gli unici a farlo, ma senza rinunciare a farlo a partire dalla specificità evangelica delle nostre radici. Il primo è l’affermazione e la testimonianza del primato della persona, a fronte di tutti i meccanismi tecnologici ed economici che spesso ne annullano identità e dignità.

Il secondo è l’invocazione di un’apertura alla trascendenza senza la quale l’umanità è condannata a soffocare, e non solo in un senso vagamente spiritualistico. Solidarietà e preghiera sono come la protesta irriducibile nei confronti di un mondo che schiaccia l’umanità dell’uomo e il suo ambiente naturale; e come tali indicano il percorso per il recupero della loro dignità e di una vita più autentica e vera.

Credenti e cittadini

Il terzo compito attiene al ruolo pubblico della religione in generale e del cristianesimo in specie. Quella che è stata chiamata «differenziazione funzionale» come esito tipico della moderna società secolare, vede la religione ricondotta entro ambiti specializzati che non le consentono d’influenzare e, tanto meno, condizionare altri aspetti della vita associata.

Lo si è in qualche modo sperimentato nel corso di questa epidemia, durante la quale si è vista la vita della Chiesa subordinata alle indicazioni delle autorità sanitarie e statali, e lo sguardo di tutti volgersi alla medicina e alla ricerca scientifica allo scopo di trovare risposte e vie per uscire dalla crisi.

Qualcuno ha sottolineato il contrasto con analoghe vicende del passato, ma ciò è solo la necessaria salutare implicazione dell’evoluzione storica e scientifica. Ciò che va compreso, piuttosto, è che il ruolo pubblico della religione non può mantenere la forma che presentava in altre fasi della storia e della cultura; non per questo, però, la religione può essere minacciata di scomparire dall’orizzonte.

Essa concorre – certo non da sola ma in maniera determinante di suo – al processo di elaborazione del cammino comune della società, proprio richiamando la domanda di senso di tale cammino, il bisogno vitale di persona e di comunità per una convivenza degna dell’uomo, l’apertura alla trascendenza come condizione per un rapporto equilibrato dell’uomo con se stesso, con il proprio ambiente, con il futuro. 

Queste istanze, che possono apparire dal volto indeterminato, sono destinate a prendere consistenza concreta, per esempio, quando saremo chiamati – e sarà presto – a misurarci con le macerie sociali ed economiche lasciate dalla lotta condotta per debellare l’epidemia, quando ci accorgeremo – se ce ne accorgeremo – che ciascuno è troppo piccolo per tutelare da solo le proprie esigenze basilari in un mondo comunque globalizzato; che non si potrà semplicemente riprendere dal punto in cui le cose erano state lasciate, perché quel punto non esisterà più; che l’epidemia ha smascherato uno stile di vita e un approccio alle questioni economiche e sociali che non producono alla fine davvero benessere e serena convivenza per tutti, perché tengono in piedi l’illusione di una inossidabile immunità e intangibilità, rimuovendo pericolosamente la coscienza della propria dipendenza, fragilità e finitezza.

Sono questioni che toccano un paese come l’Italia, attraversato da dibattiti culturali viziati d’ideologismo e da una dialettica sociale e politica sterile e di parte; e toccano anche un’Unione Europea che rischia di perdere quella integrazione economica che ha in qualche modo raggiunto, ormai sempre più inadeguata rispetto all’esigenza di un’integrazione politica, senza la quale l’Unione è destinata a rimanere debole e inconclusa, bisognosa di un’anima culturale e spirituale che si assottiglia sempre di più lasciandola senza vita. 

I cristiani, con il loro appello e la loro testimonianza di una solidarietà e di una preghiera che aprono a una speranza fondata, hanno da offrire un contributo determinante perché il futuro non scompaia del tutto dall’orizzonte di tutti.